Per non dimenticare

A ricordarci i nomi delle più celebri famiglie, oggi estinte, che per secoli furono protagoniste della vita civile e religiosa del nostro comune, resta soltanto il nome di alcune strade: via Bailo a Sarezzo, via Avogadro e via Redolfi a Zanano.

A Ponte troviamo una via dedicata a don Lorenzo Pintozzi, apostolo della gioventù, figlio di poveri contadini. R. Simoni, Per le contrade di Sarezzo

Ottavio, ultimo discendente dei Bailo

Quando Napoleone Bonaparte venne incoronato re d’Italia, il 26 maggio 1805, l’ultimo discendente della famiglia Bailo, Ottavio, era prossimo a compiere i suoi trent’anni d’età. Era giovane, attivo e soprattutto desideroso di affrancarsi dalla tutela dello zio Tiburzio, ma gli accadimenti di quegli anni avevano fino ad allora, smorzato i suoi entusiasmi. Era affascinato dalla figura di Napoleone e credeva che solo seguendo lui, tanto potente quanto ambizioso, avrebbe potuto rinverdire i fasti della sua famiglia.
Ottavio era nato a Sarezzo il5 giugno 1775, figlio primogenito di Eugenio e di Catterina Gallizioli; fu battezzato dal parroco Giovanni Maria Romilia con i nomi di Giuseppe Ottavio Maria. Trascorse i primi anni nell’austero palazzo in contrada Colombaro, “un palazzo dalla porta ferrata e di soli due piani che, all’esterno nulla presenta di importante, ma l’interno è provvisto di tutte le comodità di una casa signorile, dall’aristocratico scalone, alla grande sala tappezzata”.
Giovinetto, insieme al fratello Angelo, fu mandato a Monza a studiare nel collegio di S. Maria degli Angeli, a quel tempo frequentato dai rampolli delle più agiate famiglie bresciane. Aveva appena concluso i suoi studi quando fu avvertito che le truppe francesi, guidate dal grande corso, avevano varcato le Alpi e stavano per occupare la Lombardia.
Tornato a Sarezzo, ritrovò ancora intatti i quattro cannoni, “due sopra un affusto, ossia Carretta, ed altri due che si presentavano dai labbri d’una parete, tutti e quattro colle bocche a fronte della porta maggiore del palazzo, che la Repubblica Veneta aveva concesso ai Bailo di collocare all’ingresso della loro abitazione”.
Aveva poco più di vent’anni quando la bufera rivoluzionaria si scatenò.
L’arrivo delle armate francesi segnò il tramonto della Repubblica Veneta per la quale i Bailo avevano acquistato fama e ricchezza. Fu nel 1797 al tempo della battaglia di Carcina, che Ottavio dovette assistere alla sparizione dei quattro cannoni, “levati da Giò Battista Rampinelli, in allora comandante delle truppe valleriane invitate dal Governo Veneto alla difesa dello Stato contro l’invasione francese”.
In simili rivolgimenti il giovane seguì l’esempio dello zio Tiburzio: si adeguò al nuovo corso politico, ottenendo due risultati, anzi tre:
– conservare intatto il patrimonio familiare;
– tenere saldamente in mano l’amministrazione del comune;
– riportare la tranquillità nel paese in un periodo agitato.
Alla caduta di Napoleone si videro nuovi mutamenti politici e nuovi voltafaccia. Ai Francesi, costretti ad andarsene, subentrarono gli Austriaci e, per quanto erano stati amici dei Francesi e di Napoleone, cominciarono i guai. La disavventura che vede Ottavio Bailo, la sera del 14 febbraio 1814, arrestato e condotto a Zanano per essere infine derubato, è solo uno dei tanti episodi capitati in quei giorni convulsi.
Un episodio disgustoso, comprensibile nei momenti torbidi, ma che Ottavio difficilmente riuscì a dimenticare.
Alle minacce e, qualche volta agli insulti, per Ottavio subentrò l’emarginazione politica. Venne a più riprese escluso dalla tema dei candidati alla carica di sindaco con la motivazione ufficiale che aveva interessi con il comune. Tutto vero, perché andava acquisendo numerose proprietà che il comune si trovava a dover vendere, ma era pur vero che l’Austria non gli perdonava il suo passato filonapoleonico.
È questo il motivo per cui il Bailo non riesce a realizzare un sogno che era stato anche dei suoi antenati: aggiungere alla ricchezza il coronamento di un titolo nobiliare. Nell’anno 1838 inoltra una supplica al nuovo Imperatore d’Austria Ferdinando I, implorando in via di grazia, una distinzione onorifica qualunque, in surrogazione di quella costituita dai 4 cannoni che fino al 1797 teneva all’ingresso del suo palazzo.
Il sig. Ottavio per dare maggior peso ed importanza alla sua domanda, non potendo produrre il privilegio avito che non poté trovare, allegava dei certificati di cittadini, i quali avevano veduto coi propri occhi quei cannoni nella corte del palazzo all’epoca della cessata Repubblica di S. Marco.
Neppure questa umile domanda valse ad ottenergli l’agognata onorificenza. Costretto suo malgrado a rinunciare al blasone, decise di dedicarsi alle attività che la sua posizione gli consentiva, ossia ai piacevoli ozi letterari (non aveva scordato la sua formazione umanistica) e alla amministrazione di tutti i suoi possedimenti. L’una e l’altra occupazione gli offrivano l’opportunità di avere frequenti incontri e coltivare le amicizie con persone di ogni rango. Tutto questo senza trascurare gli incontri galanti. Perché Ottavio era tutt’altro che un misogino. Il suo palazzo di Sarezzo non aveva nulla da invidiare ad una dimora “nobiliare” e le restanti residenze rurali, come il palazzo di Visala e il castello sopra Sarezzo, diventarono luoghi prediletti per trascorrervi lunghe serate con gli amici.
A Sarezzo Ottavio contava una schiera di serve e domestici, cocchieri e guardiaboschi al suo servizio. Il parroco Turrinelli sul registro parrocchiale annota che in casa Bailo, oltre al padrone di casa, erano presenti:
– Lodovico Gusmeri,
– Giacomo, cocchiere,
– Pietro, famiglio,
– Catterina Tabona, serva,
– Teresa Zonta, serva,
– Battista Camozzi, contadino.
A partire dal 1838 compare il nome di un’ altra persona che il parroco annota discretamente con il solo nome di battesimo, seguito da un appellativo: “Rosa.. . donzella”.
È Rosa Ballerini, una avvenente giovane ventiduenne di Brescia che dimora stabilmente in casa Bailo. Le domande e le illazioni su chi era costei si sprecano.
Probabilmente la spiegazione è più semplice di quanto si possa credere. Giunto all’età di 63 anni, Ottavio Bailo avverte l’inanità di tanti suoi sforzi: all’ambizione subentra la rassegnazione e un senso di solitudine. Da tempo i fratelli Francesco e Angelo sono scomparsi; anche l’anziana madre se n’è andata alla fine del 1830. Quando cominciano i primi acciacchi e senti che il tempo corre via veloce, ti viene spontaneo pensare al “dopo” e dedicare il tempo che ti rimane a mettere ordine nelle tue cose. In simili frangenti può soccorrerti l’affetto di un familiare. E Rosa, la giovane benvoluta e amata come una figlia, gli sarà accanto per assisterlo come un padre, sino alla fine. Si comprende così anche perché Ottavio Bailo, fin dal 1838, abbia designato Rosa come unica erede del suo patrimonio (oltre a prevedere nel testamento un lascito di L. 12.000 per l’assistenza ai poveri).
Estate 1842. Ottavio avverte prossima la fine. A più riprese, “reiteratamente”, giungono colpi apoplettici che lo costringono a letto.
Qualche po’ di tempo dopo, sul letto di morte, in aggiunta del suo primo testamento, alla presenza dei testimoni don Giò Battista Ronchini, Bonaventura Bono medico Vincenzo Zola, Ottavio Bailo dettò le sue ultime volontà testamentarie.
Di lì a quattro giorni Ottavio rese l’anima a Dio.
“Li, 23 agosto 1842. Bailo Signot Giuseppe Ottavio Maria figlio del fu Eugenio e della fu Signora Cattarina Gallizioli di Sarezzo, nubile, d’anni 67 circa, ricevuti i S.S. Sacramenti per mano del Sacerdote Ronchini con permesso di me Parroco Turinelli, per aploplessia più volte a piccole riprese reiterate, ultimo superstite di casa sua, è morto l’altro ieri a ore 10 e 1/2 antimeridiane e fattogli stamane uno sfarzoso funerale è stato seppellito nel suo sepolcro al Cimitero Comunale”.
Con Ottavio si spense così “questa distinta famiglia che nell’industria siderurgica antica fu una delle principali della Valle Trompia per aver fornito alla Repubblica Veneta cannoni e bombe”.
Dopo la morte di Ottavio, iniziarono, come poteva essere prevedibile, le controversie fra colei che aveva ereditato tanta fortuna, e quelli ai quali erano restate le “briciole” di alcuni terreni e case situati in Visala.
Mentre scoppiavano i primi dissapori, la Ballerini, il 18 giugno 1843, andò sposa all’avvocato Gian Battista Barboglio di Brescia. L’avvocato apparteneva ad una nobile famiglia bresciana nota per la sua fedeltà al governo austriaco.
Forse non dovette suscitare eccessiva sorpresa il matrimonio fra la giovane, bella e ricca ereditiera e l’attempato e vedovo avvocato bresciano. Sicuramente li legava l’amministrazione dei Beni che la Ballerini possedeva a Sarezzo, compito questo che l’avvocato svolse per alcuni anni con cura esemplare. Anche per questo motivo, i due, pur abitando stabilmente a Brescia, venivano di frequente a Sarezzo.
Dopo la morte dell’anziano marito, Rosa Ballerini, nel 1851, va sposa ad un altro personaggio dell’aristocrazia bresciana, quell’aristocrazia che aveva fatto della fedeltà all’Austria la sua ragion d’essere, Rodolfo di Brehm, che ricopriva allora la carica di “Maggiore Preside dell’Imperial Regia Commissione Militare Inquirente”.
La cura e l’amministrazione dei possedimenti di Sarezzo furono, nel frattempo, affidati ad un “procuratore generale” che a nome dei coniugi Ballerini-di Brehm curava ogni loro interesse partecipando anche alle riunioni nelle quali l’amministrazione comunale trattava argomenti che avevano a che fare con i beni ex Bailo.
Nel 1868 i due coniugi ed i loro tre figli prendono dimora a Sarezzo per trascorrervi il periodo più tranquillo della loro vita circondati dal rispetto e all’amore di tutti gli abitanti.
La notizia della scomparsa del Generale Di Brehm si sparse in paese la mattina dell’11 giugno 1888. Rosa Ballerini muore dieci anni dopo il marito. R. Simoni, Per le contrade di Sarezzo

Gli ultimi Avogadro

Fino ad alcune decine d’anni fa un angolo del vecchio cimitero di Sarezzo era riservato alle famiglie più importanti del comune.

Accanto alla tomba dell’ultimo Bailo, erano allineate sul muro di cinta alcune lapidi che risalivano all’800. Una di esse recava scolpite (in latino) queste parole:
“Alla memoria di Orazio Avogadro, figlio di Vincenzo e di Lucrezia Bocchi, sposo di Teresa Bonincontro, che visse 45 anni, 3 mesi, 21 giorni, medico illustre, noto per la pietà, la religione, la beneficenza. Morì il primo novembre 1837 compianto da tutti.

La moglie Teresa allo sposo egregio e i figli al padre benemerentissimo posero piangendo”.

I funerali, celebrati dal parroco di Sarezzo Giacomo Turrinelli, si svolsero nella chiesa di San Martino di Zanano con la partecipazione di tutti gli abitanti della contrada.

Scompariva così l’ultimo discendente della nobile famiglia, morto a Zanano e sepolto nel cimitero di Sarezzo, accanto alla tomba di sua madre morta l’anno precedente all’età di 82 anni.

Tra le mura del grande e grigio palazzo restavano i tre figli in tenera età, Vincenzo 11 anni, Giacomo 9, Martina 8, la sposa ed una sorella, Caterina, di 60 anni, “da molto tempo diventata pazza”.

La sventura, che sempre, nel corso dei secoli, aveva accompagnato le sorti dei nobili Avogadro, parve accanirsi ancora di più negli anni del loro tramonto, con il suo bagaglio di malattie e morti premature. Alle vicende familiari si accompagnarono, altrettanto funeste, quelle politiche.

La rivolta giacobina del 1797, seguita dal crollo della Repubblica veneta, cancellò l’aristocrazia di sangue, ma anche i superstiti patrimoni della nobile famiglia.

Nel 1819 gli Avogadro possiedono un “estimo”, cioè una ricchezza, valutato in lire 13388 contro un estimo di lire 120.439 dei fratelli Ottavio e Angelo Bailo.
Iniziano alcuni anni di terribile carestia; le antiche confraternite religiose che assistevano i poveri ed i malati sono state cancellate, i monasteri che provvedevano pane per i poveri sono chiusi. Dilaga la miseria, mentre scorbuto, pellagra, tisi, tifo petecchiale menano strage tra gli abitanti del comune.

C’è tanto da fare per un giovane neolaureato in medicina come il dottor Orazio Avogadro che nel 1820 viene nominato medico condotto del comune di Sarezzo.

Inizia così la “carriera”, il dottore “più benvoluto dalla popolazione”, con un compenso annuo di lire 500 e con il compito di assistere gratuitamente tutti i poveri del comune.

Il dottor Orazio trovò il tempo per convolare a giuste nozze con Teresa Bonincontro di Salò ed i due stabilirono la loro dimora nel palazzo di Zanano dove viveva l’anziana Caterina.

Ma subito, di comune intesa, i coniugi Avogadro decisero di aprire le porte della loro casa ai mendicanti, ai malati da assistere, agli orfani senza casa. Il palazzo divenne così un ricovero per i bisognosi o, come allora si diceva, “un Pio luogo” o “Casa di Dio”.

Questa istituzione rimarrà viva fin verso la fine del secolo, quando si trasformò in orfanatrofio femminile. Per un lungo periodo la “Casa di Dio” di Zanano fu amministrata direttamente dalla omonima istituzione di Brescia che vi aveva nominato Nassini Domenico “camparo”, ossia guardia dei campi e dei boschi avuti in dono dagli Avogadro.
All’inizio dell’ estate 1836 a Sarezzo scoppia improvvisa e virulenta l’epidemia di colera. Da subito il dottor Orazio “si dichiara disponibile ad ogni occorrenza di prestarsi alla cura dei malati che venissero attaccati dal Cholera” e insieme ad altre persone procura letti e lenzuola per i colpiti dal male. Una sera, era il 25 giugno, stava tornando da Brescia quando fu avvertito che Innocenzo Paroli di Zanano stava male.

Fu quello il primo di una lunga serie di decessi dovuti al colera.

Toccò poi a Margherita Beccalossi, a Giacomo Buffoli, ad Andrea Lurani…
Ma “dopo pochi giorni che fu scoppiato il Cholera anche il dottore è colpito dal morbo e la sua malattia durò per più tempo”. Riuscì a guarire, ma il suo fisico era irrimediabilmente minato.

Fu costretto a letto: “ascite” fu la diagnosi, un “versamento” causato da un male profondo a cui, nel 1837, seguì la morte. R. Simoni, Per le contrade di Sarezzo.

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