Non era ancora scomparso il ricordo dell’epidemia del 1577-78, nota come “la peste di San Carlo”, quando il morbo ricomparve, improvviso e funesto, sul finire dell’autunno 1629. La peste giunse in Lombardia portata dai Lanzichenecchi, i soldati mercenari che, scesi a migliaia dalla Germania e dalla Svizzera, passarono in terra bergamasca e bresciana per andare a combattere in occasione della guerra di successione per il ducato di Mantova.
I primi casi si manifestarono nel mese di novembre e subito furono presi i necessari provvedimenti per impedire il diffondersi del contagio. A Brescia furono sbarrate le porte della città: nessuno poteva più entrare se non era provvisto della “fede di sanità”.
“Si finì la terra di Zenà di Valtrompia”
Il 18 novembre 1629 a Sarezzo venne convocato il Consiglio Generale per decidere il da farsi. Furono nominati 12 uomini “deputati sopra la sanità” con il compito di attuare tutti gli interventi perché il contagio non colpisse l’intera comunità. Mastro Giangiacomo Amorosio fu incaricato, dietro compenso, di rilasciare le “fedi di sanità”. Ma i provvedimenti adottati dalle autorità comunali e le raccomandazioni che venivano dal pulpito della chiesa non sortirono alcun effetto. Nell’estate successiva la peste dilagò in tutta la Valtrompia; Zanano e Sarezzo risultarono fra i paesi più duramente colpiti.
“1630, 19 luio. Vene una peste crudele et cominciò a Bergamo, Milano et vene a Bressa et a Verona, Mantoa, poi si diffondette in tutte le valli, cioè Val Camonica, Valtrompia et Val di Sabia, nelli quali logi fese strage grandissima. In Valtrompia si fini la terra di Zena di Valtrompia a fatto, causa di una bastardina che fu condotta da Bressa in casa del Signor Fioravante Avogadro, et cusi a poco a poco andò serpendosi tutta la terra. [. ..] Nel mese di Avosto cominciò la peste a Gardù et seguitò fino a metà settembre, cessò alquanto et poi al primo di ottobrio tornò a cominciare benissimo e tra la metà di quel mese c’era morti cento ottantaet tutt’hora ne more”.
Il “sindico di Valtrompia”, Orazio Lorandi, scrivendo da Gardone il 19 luglio avverte ogni comune della valle che “occorrendo andare per necessaria causa fuori di Valle, per la via di sotto, vadino per la strada di Noboli sin a S.to Vigilio, dove oltre li ponti di legno si farà resto rare quel guado per pubblico comodo Finché parerà a N.S. Dio liberare l’antico transito”. Tra i luoghi più sospetti di peste il sindaco cita Zanano, Carcina, S. Apollonio di Lumezzane.
Allorché si riscontrarono i primi casi del terribile male, chi poteva cercò scampo sui monti nella speranza di fuggire il contagio, chi era rimasto se ne stava chiuso in casa e i paesi si fecero deserti. La gente moriva sola, senza alcuna assistenza; i morti furono tanto numerosi che non c’era posto nel cimitero parrocchiale; venivano sepolti in fretta e di nascosto nell’orto o nel bosco; alcuni venivano dimenticati nelle case disabitate.
Non abbiamo notizie circostanziate sul diffondersi dell’epidemia a Sarezzo.
I documenti dell’archivio comunale e dell’archivio parrocchiale, a questo riguardo, tacciono, ma questo silenzio è più eloquente di tante pagine scritte; le pagine rimaste in bianco sono lì a dirci la gravità del momento. È un particolare che fa riflettere sulla vastità della tragedia.
Un’eco della situazione è rimasta nel culto verso San Rocco e san Nicola da Tolentino che in quei giorni si fa più intenso. La gente accorreva ai loro altari, faceva “limosine”, “implorava pietà da S.D. Maestà nel presente atrocissimo flagello della peste, per cui ogni giorno ne mancano molti da questa vita senza potervi mettere alcun rimedio”. (Dagli annali di P: Voltolino).
Non abbiamo nemmeno l’elenco dei morti, un numero rilevante se, soltanto in data 27 luglio 1630 il Vicario foraneo di Sarezzo, don Martino Troncato, comunica al vescovo che a Zanano su 280 abitanti, ben 125 sono morti a causa della peste.
Se teniamo presente che in alcuni paesi della Valtrompia, cosl come a Brescia, le vittime della pestilenza furono quasi la metà degli abitanti, è probabile che a Sarezzo si siano contati almeno cinquecento morti.
Un numero spaventoso, tanto che il loro ricordo è rimasto nella memoria degli abitanti per oltre tre secoli.
I più anziani possono ricordare una tradizione locale sopravvissuta fino a pochi decenni orsono. Gruppetti di donne di Sarezzo, Zanano e Noboli solevano recarsi nei pomeriggi domenicali, rosario in mano, a pregare ai “morcc de la Canonèga”, una località a ovest di Cogozzo dove, si diceva, erano stati sepolti i morti della peste. Un documento citato da R Prestini viene a confermare che la tradizione aveva un suo fondamento e che la località a ovest di Cogozzo, denominata “Canonica”, in dialetto “Canonèga”, era effettivamente il luogo prescelto per la sepoltura dei morti a causa della peste del comune di Villa e di Sarezzo.
Essendo stata flagellata, la terra di Cogozzo e di Villa, da un fiero male epidemico degli animali bovini, per placare l’ira divina, gli originari di questo comune, il 29 ottobre 1748, decidono di fabbricare un Santello rimpetto ad una Gran Massa d’Ossa di Cadaveri d’omini morti, come si dice, nel tempo de Contaggi passati, et sepolti di sotto del Torrente, verso mezzodì a monte del Brolo detto la Canonicha di ragione dei signori Fisogni, acciò che se mai alcune dell’anime di que Cadaveri si ritrovassero ancora nelle Pene del Purgatorio et avesse bisogno di Suffragi, potessero essere soccorse dalle Orationi di quelli che passassero di rimpetto a detto Santello. [R Prestini, Villa Carcina, pp. 368-369].
Abbiamo già visto alcuni testamenti con i quali numerose persone di Sarezzo e di Zanano, colpite da male contagioso, lasciano i loro beni, o parte di essi, per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale, per l’oratorio di S. Nicola da Tolentino, per la chiesa di S. Martino.
Nell’estate del 1639 nei paesi della valle si diffuse la paura che una nuova pestilenza stesse per sopraggiungere. I responsabili comunali si riunirono per decidere quali precauzioni prendere al fine di prevenire il diffondersi del morbo. Il citato sindaco di valle, Orazio Lorandi, chiese al dottor Antonio Richini, medico-fisico residente in Gardone, di dettare un efficace rimedio per impedire il contagio e rassicurare la gente. Il dottor Richini scrisse il suo rimedio raccomandando di farlo conoscere in tutti i comuni della valle.
Dopo avere esortato gli amministratori comunali ad allontanare tutti i malati dal centro abitato isolandoli negli appositi “lazzaretti”, il medico propose il seguente rimedio:
“Ognuno adunque la mattina avanti che mangi per tre ore o doi almeno piglierà oncie quattro dell’infrascritto brodo caldetto che si prepara a questo modo. Si raccolgono delle granelle di ginepro, cioè di quelle mature, si pestino et poi si facciano bollire con acqua pura, et si facciano bollire sinchè l’acqua pigli color zafferano, il che presto fa sì se gli ne mette sufficiente quantità rispetto all’acqua, come saria una branca ordinaria per lira di acqua; et se vi mette tanto di sale, che divenghi il brodo alquanto salsetto o, come alcuni dicono dolcissimo sale. E così questo brodo colato li grandi ne piglino oncie 4, li mezzani oncie tre, li piccoli un’oncia circa; et se alcuno non avesse sale, adoperi della grepola di verza, sarà buono anco senza sale o grepola, et se non avesse lavezzo adoprino stagnatelli, procurando però di levar fuori il brodo presto dopo che avrà bollito. Quelli che sono sani et non hanno sospetto di aver pigliato male, basta pigliare le cose come ho detto, ma quelli che hanno sospetto di aver pigliato qualche contagio pestilenziale ne piglieranno oncie sei, et procurino di sudare bene, facendosi ben copertare, et se ciò faranno con patientia trei mattine si assicureranno di tal contagio per quanto si può con l’arte umana, cambiandosi i panni, et lavandosi la vita con lisciva o orina, il che Iddio faccia per sua bontà e misericordia”. R. Simoni, Per le contrade di Sarezzo.